TIPOLOGIA FOTOGRAFICA DELLA CITTÀ GENERICA

-

"La città generica è la città affrancata dall'asservimento al centro, liberata dalla camicia di forza dell'identità. La Città generica spezza il ciclo distruttivo della dipendenza: essa non è nient'altro che il riflesso delle necessità del momento e delle capacità presenti. È la città senza storia"

Rem Koolhaas, 'La ville générique', 1994

Nel 2000 Claire Chevrier ha visitato Hong Kong, la megalopoli del sud-est asiatico paradigmatica della sfrenata espansione urbana che contrassegna il nuovo millennio. Quel viaggio ha dato modo alla fotografa di rinnovare la sua prassi, abbandonando il rapporto con la memoria su cui aveva lavorato fino ad allora per concentrarsi sullo spazio contemporaneo di città che affrontano uno sviluppo esponenziale e caotico. Secondo Rem Koolhaas quella crescita inghiotte in effetti qualsiasi forma di passato e conduce alla creazione di città amnesiche, prive di identità o qualità specifiche[1]. Esse divengono città generiche – come le chiama l'architetto olandese – spazi multirazziali e multiculturali, ad alta densità demografica, il cui sviluppo è dovuto all'ammassamento di elementi eterogenei. Rio, Bombay, Istanbul, Il Cairo e ancora Los Angeles e Lagos fanno parte dell'elenco degli immensi agglomerati esplorati da Claire Chevrier: luoghi sovradimensionati e instabili in cui, specie nei paesi emergenti, gli uomini si concentrano sempre più numerosi.

Gli scatti realizzati da Claire Chevrier in quelle anonime incarnazioni della globalizzazione si organizzano in una tipologia particolare. Le varie categorie (paesaggi-città, limiti, spazi + costruzioni, incroci-città, viali ed edifici) si presentano come una sorta di zoom dalla periferia di ciascuna megalopoli in direzione del suo ventre privo di centro; esse evidenziano in ogni caso un progressivo avvicinamento al nucleo urbano grazie a inquadrature strette cui si associa in maniera regolare una riduzione del formato. Le foto di Claire Chevrier si presentano allo stesso tempo come raffigurazioni e come oggetti: i rapporti di proporzione e i giochi di scala vi sono congegnati con accuratezza per favorire la massima leggibilità, sostenuta dalla materialità delle immagini, dei luoghi rappresentati. La profondità prospettica di Avenue 03 a Lagos o l'orizzontalità di Avenue frontale 01, questa volta a Rio, sottolineano – proprio come la variazione di formato delle stampe in funzione del soggetto – la volontà di organizzare il reale in maniera non sistematica.

In effetti la classificazione di Claire Chevrier non si basa sul rispetto di un protocollo troppo rigoroso al momento dello scatto, nella tradizione dei Becher e della scuola di Düsseldorf. Anche se alcune caratteristiche si ripresentano (come il punto di vista panoramico o i registri orizzontali che ritmano la composizione), esse non si pongono come parametri immutabili volti alla definizione di una serie rigorosa in cui l'obiettività tecnica si spinge fino all'astrazione delle vedute. L'adattamento, preferito all'insistita ripresa di tratti specifici, riflette una realtà urbana essa stessa flessibile e in perpetua trasformazione. Lungi dal costituire un corpus dalla riconoscibilità immediata, Claire Chevrier adotta un punto di vista che rispecchia la perdita di punti di riferimento propria di quegli agglomerati in cui l'arte di arrangiarsi crea un vocabolario universale dell'habitat, come il telone blu presente in tante bidonville ad ogni latitudine.

Tale flessibilità rivela il desiderio di reagire agli ambienti attraversati, senza applicare una griglia di lettura restrittiva che ne regoli l'interpretazione. Nonostante la loro disordinata uniformità Claire Chevrier non cerca di stabilire una classificazione valida per tutte le metropoli di oltre dieci milioni di abitanti nella prospettiva di un assetto trasparente che rassicuri sulla potenziale padronanza dell'ambiente umano. Al contrario, le categorie in cui sono suddivise le foto – dal paesaggio agli edifici isolati – testimoniano il tentativo di ricondurre questi territori alla misura dell'individuo, in un'epoca in cui tale soggetto sembra destinato a scomparire. L'adattamento è quindi al centro della strategia della fotografa che si è interessata anche a concentrazioni umane meno colossali. È il caso di Paysage-ville 05 che mostra in lontananza, dietro un filare di olivi, gli edifici di Damasco sulla collina, seguiti da innumerevoli costruzioni di fortuna. Quell'urbanistica precaria che si confonde con la roccia è il segno che il confine tra cultura e natura, tra la città e i suoi dintorni, non è poi così netto.

La "deterritorializazione" di cui stiamo parlando e che finalmente chiamiamo per nome obbliga a tornare sulla celeberrima nozione di aura introdotta da Walter Benjamin[2]. Riprenderla oggi in uno scritto sulla fotografia potrebbe sembrare davvero tedioso giacché essa è da sempre associata a questo mezzo di comunicazione. Tuttavia la perdita dell'unicità diagnosticata nel 1930 dal filosofo tedesco offrirebbe la possibilità di comprendere che le "città generiche" sono state raggiunte anch'esse dall'irreversibile declino dell'hic et nunc, del qui e adesso. Per Benjamin lo stigma dell'autenticità distingueva l'opera d'arte nella misura in cui quest'ultima era depositaria di una tradizione (identificabile nel suo corpo materiale) che la riproduzione meccanica annientava con un doppio intervento di decontestualizzazione e di attualizzazione. Oggigiorno l'insieme dei nuovi spazi urbani andrebbe interpretato come il prodotto di questa trasformazione. Va però rilevato che la distinzione di Benjamin non è più totalmente operativa: "l'apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina[3]" non si è risolta in una mera promiscuità con le cose. Che l'influenza della banalità sia aumentata è fuor di dubbio. Tuttavia ciò non comporta il totale annullamento di ogni distanza.

Nelle fotografie di Claire Chevrier tale distanza si materializza spesso sotto forma di un esteso spazio vuoto in primo piano. Esse accostano un familiare lessico architettonico che rimanda a una sorta di modernismo internazionale a dettagli pittoreschi, come i sari indossati dalle donne di Bombay in Paysage-ville 03. Pur senza focalizzarsi su questi tratti esotici le sue immagini sottolineano il rimescolamento topografico di insolito e ordinario, di varietà e uniformità. Le opposizioni nette vengono rimpiazzate dall'ambivalenza per descrivere una contemporaneità in cui il diverso e l'identico divengono intercambiabili. È proprio questa indefinitezza che fa sì che l'aura non si eclissi mai del tutto. Nell'epoca dell'amalgama continua a resistere "un singolare intreccio di spazio e tempo", segno che lo sguardo continua a essere sinonimo di un'esperienza ben distante dalla purezza.

[1] Si rimanda in particolare a La ville générique, articolo di Rem Koolhaas tradotto in francese e pubblicato nel volume Mutations, ACTAR, Paris 2001, pp. 722-757. [2] Walter Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966. [3] Ibid., p. 70. [4] Ibid.

Fabien Danesi

Autres articles: